La legge dello spogliatoio per vincere il razzismo
Il 21 marzo si è celebrata la Giornata mondiale contro il razzismo, indetta dalle Nazioni Unite in ricordo del massacro di Schaperville del 1960, la giornata più sanguinosa dell’apartheid in Sudafrica. C’è, però, qualcosa che non funziona. Di manifestazioni e iniziative per celebrare la Giornata ne sono state fatte tante, in Europa e in Italia. Ma se chiedi a dieci persone a caso, che passano per strada, se sanno che la settimana scorsa c’è stata questa celebrazione, almeno otto ti rispondono di no. Dunque la giornata contro il razzismo non ha “bucato”, nel senso che ha raggiunto solo una quota molto marginale della popolazione. Strano, perché se oggi c’è un tema di grande attualità è proprio questo.
Sappiamo tutti che molto del futuro dell’umanità si gioca nella capacità di accogliere l’altro senza pregiudizi. Lo sport da questo punto di vista rappresenta un avamposto culturale della società. Se c’è un luogo dove il razzismo é stato sconfitto, si chiama spogliatoio. Dentro quei 20 metri quadri, con panche e docce, il colore della pelle, la religione, il Paese di provenienza sono “dettagli” che interessano poco. Lì, in maglietta e calzoncini, ci si sente subito tutti uguali.
Pensiamo allo spogliatoio di una qualsiasi squadretta di un oratorio. Le statistiche dicono che spesso a vestire la stessa maglietta sono ragazzi o ragazze di Paesi, religioni, colore della pelle e abitudini differenti. A tenerli insieme non è uno specialista in mediazione culturale o in strategie di integrazione. È il signor Giovanni, allenatore per passione, e infermiere nella vita. Il suo ultimo problema è il colore della pelle o il Paese di origine dei ragazzi. A farlo diventare matto è, piuttosto, il fatto che Jadidh non passa mai la palla, che Matteo sbaglia i gol a porta vuota e che Karol ha un gran fisico ma in difesa è troppo incerto. Lo sport ha davvero una forza devastante nell’abbattere barriere e distanze tra le persone e tra i popoli. Non è retorica. È la verità. E questo non riguarda solo i ragazzi. Quando vanno a mangiare la pizza, i genitori dei ragazzi di quella squadretta si frequentano con la più grande naturalezza, si incontrano, diventano amici e a nessuno passa per la testa che il colore della pelle o il Paese di provenienza sia “un problema”. Insomma, lo sport (quello vissuto e praticato, non quello urlato allo stadio) batte il razzismo 10 a 0. Ecco perché vale la pena ricordare la Giornata mondiale contro il razzismo e che siamo avamposto nella società del nostro tempo. Ecco perché vale la pena ricordare che a volte abbiamo già vinto anche quando non portiamo a casa i tre punti a fine partita.