Lo sport “ospedale da campo” della società odierna
La Chiesa di oggi deve somigliare più ad un «ospedale da campo» che ad una Ong. A dirlo è stato papa Francesco nel corso di un’omelia nella messa mattutina a Santa Marta. Non basta fare del bene o avere una buona organizzazione.
Bisogna avere la capacità di far sentire sempre il vento del Vangelo, facendosi carico delle debolezze, delle fatiche, delle ferite di tutti e di ciascuno. Il mondo dello sport oggi può e deve sentirsi “ospedale da campo” per la società. In un tempo in cui i veri fuoriclasse dell’educazione faticano a dare il meglio di loro, lo sport è chiamato a dare il meglio di sé. Da generazioni famiglia e scuola sono stati i pilastri dell’esperienza educativa. Lì, i giovani di ieri hanno imparato i valori ed il senso della vita.
Oggi queste due realtà, per motivi diversi, fanno tanta fatica. Ecco allora che la “fascia di capitano” passa al mondo dello sport. Si possono avere tanti dubbi, ma non c’è perplessità alcuna nell’affermare che gli allenatori possano essere i migliori educatori per i giovani. Nella grande sfida educativa, lo sport deve tirarsi su le maniche, prendersi sulle spalle grandi responsabilità e generare speranza.
Continuando sì a cercare i campioni di domani, ma aprendosi completamente a tutti, diventando quell’«ospedale da campo». Non è più tempo di andare a trovare solo quelli bravi, ma occorre cercare anche quelli scarsi, che rompono le scatole, che nessuno vorrebbe, che vivono povertà e fatiche umane ed esistenziali. Non basta accoglierli.
Bisogna stanarli. Solo così lo sport risponderà sino in fondo al compito al quale oggi è chiamato. Lo sport che vogliamo e sogniamo è una specie di «ospedale da campo» capace di curare e rigenerare le ferite dei giovani di ridare speranza, di insegnare sul serio i valori della vita. Questa è la grande partita che si può giocare in ogni scalcinato spogliatoio d’un impianto di quartiere o di periferia. Altro che costruire campioni. Ciò è un obiettivo troppo modesto per il mondo dello sport (o almeno per il Csi). Accompagnare i ragazzi perché possano diventare bravi cittadini di domani, rendendo più bello il mondo e l’umanità: questo è il meraviglioso compito al quale sono chiamati allenatori, dirigenti, presidenti e animatori. Lo sport deve restare sé stesso: buona organizzazione, allenatori e dirigenti competenti, attività sportiva di qualità e voglia di vincere. Sono e devono restare questi gli ingredienti importanti di qualsiasi esperienza sportiva (a partire dallo sport in oratorio). Ma serve il coraggio di “andare oltre”. Se lo sport dovesse oggi fallire il suo compito educativo, ai ragazzi resterebbero poche altre possibilità. In questi 70 anni il Csi si è sempre sentito «ospedale da campo» e non Ong del mondo dello sport. Ma tutto questo non ci basta. Vorremmo esser capaci di contagiare sino in fondo tutto il sistema sportivo con la nostra passione educativa, ricordando che siamo chiamati ad aiutare lo sport a migliorarsi. Leggere che – nel nostro Paese – in età adolescenziale 4 ragazzi su 10 smettono di fare sport fa male da morire. È una sconfitta che nessuna vittoria può far dimenticare. Siamo fatti per generare speranza nel cuore dei ragazzi e non per “mandare a casa qualcuno”. Per occuparci di tutti anche quando questo costa tanta fatica.