Tre modi di allenare stando dalla parte dei più deboli
«Come si fa a stare vicino ai più deboli?». La domanda l’ha posta Mattia al termine di un corso allenatori di un piccolo comune di provincia. Evitiamo dotte filosofie. Sono infiniti i normali esempi di vita quotidiana presi a prestito da una piccola società sportiva. Paolo, 35 anni, benzinaio ed allenatore di una squadra esordienti. La sua arma vincente è il sorriso. Accoglie sempre tutti così. Vittoria o sconfitta, per lui non cambia nulla. Sulla porta dello spogliatoio sorride ad ogni ragazzo che arriva all’allenamento. Per molti ragazzi quel sorriso è solo qualcosa di bello e simpatico. Per altri significa altro. Tra quei ragazzi qualcuno di sicuro a casa ha un po’ di problemi; c’è chi non si sente amato nella vita; o va male a scuola; chi fa fatica ad integrarsi poiché di un altro Paese. Per costoro, quel sorriso di Paolo vale molto più di un sorriso. Fa sentire che qualcuno aspettava proprio te. Un semplice sorriso sulla porta dello spogliatoio. E pensare che ci sono mister che non sorridono mai. Allenatori di “pulcini” che non dormono perché la squadra ha perso, o che arrivano al campo imbronciati, pronti a borbottare con chi ha sbagliato un gol. Allenatori che non saranno mai educatori!
Cambiamo esempio. Prendiamo un adolescente “grassottello”, che vive con la paura di esser preso in giro. Vai a giocare a pallone, perché ti piace e perché ci vanno i tuoi amici. Sogni e speri che almeno lì possa sentirti come gli altri. Sai di essere meno bravo e di non riuscire in cose che altri compagni sanno fare. Ma non t’importa. Luca ha 26 anni e studia ingegneria. Di ragazzi un po’ goffi e impacciati in squadra ne ha più di uno. Vederlo allenare è un piacere. Più un ragazzo sbaglia e più lui lo incoraggia. Più l’errore è clamoroso e più trova la parola giusta per dargli fiducia. Insomma una “prossimità sportiva” semplice, immediata, bella da testimoniare. E pensare che ci sono dei tecnici che urlano a chi sbaglia e se magari un ragazzo perde fiducia lo tiene più tempo in panchina. Più è scarso e più lo fanno sentire debole. Insomma allenatori che non sanno essere mai educatori!
Elena ha 25 anni, fa l’insegnante a scuola, ed allena una squadra di volley. Per le sue ragazze c’è sempre. Serve una mano per studiare? “Eccomi qua!” Serve confidarsi un po’ eccola uscire dall’allenamento chiacchierando con questa o quella ragazza. Serve affrontare un problema? Eccola rinunciare ai suoi impegni per correre da chi ha bisogno. In panchina è un coach “tosto” e le piace vincere. Ma fuori dal campo le ragazze sono tutte uguali e darebbe la vita per ciascuna delle sue atlete. E pensare che ci sono allenatrici che conoscono poco o nulla delle loro ragazze. Non sanno quali film preferiscano, ma soprattutto non sanno quali siano i sogni e le paure delle ragazze che allenano. Corrono dietro ai bagher o a qualche altro fondamentale e si perdono la parte più bella. Caro “Mattia” ti è chiaro adesso come si fa a stare dalla parte dei deboli, allenando? Basta prendersi cura di ogni ragazzo. Il resto vien da sè. Con piccoli gesti che parlano più di mille parole.