Se anche i videogames diventano sport, sfida e responsabilità
Diciamocelo apertamente: quanti di noi italiani – lunedi sera al fischio finale dello spagnolo Antonio Matheu Laoz – non avrebbero voluto digitare il tasto “rigioca”, piuttosto che “reset” o “continua il gioco”? Lo abbiamo cercato invano. Niente. Inesistente. Freddo, glaciale, preciso e puntuale sul maxischermo del Meazza era scritto “Game over”. La Svezia scenderà quindi in campo in Russia, ma l’Italia giocherà comunque il suo Mondiale di calcio. Dove? In uno qualsiasi tra i più noti videogames, sui monitor, sui cellulari, su moltissimi “screen” che oggi risultano essere tra i più diffusi e praticati campi da gioco: tascabili, su un vetro di 20x12 cm, talvolta anche più piccoli. Se proprio oggi la Doxa ci conforta dicendoci che due ragazzi su tre under 15 praticano sport, è pur vero che la stima mondiale degli “schermofili”, coloro che almeno un’ora alla settimana gioca ai videogame è pari ad un terzo della popolazione della Terra. Questo ci raccontano gli ultimi giorni di un 2017 sconvolgente quanto schizofrenico: c’è il presidente del Consiglio Gentiloni al lavoro per inserire lo yoga (per il Coni, invece, così come il parkour, il dodgeball e tante altre attività, non è più nel registro degli sport) nelle ore di educazione fisica a scuola, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea che precisa come il bridge non possa essere ritenuto attività sportiva, mentre il Comitato Olimpico Internazionale, battezza i videogiochi sport a tutti gli effetti, spiegando che i giocatori degli eSports, che si preparano e si allenano, con intensità possono essere paragonati a quelli delle discipline tradizionali. Saranno campioni sì, assisi, sedentari, con anonimi sfidanti nascosti nei nickname ad ogni latitudine del globo. Con cuffie, consolle, mouse e joystick a portata di mano nella borsa, l’accappatoio per la doccia, a casa. E noi, padri dei millenials, sempre a pensare che generatori di benessere potessero essere il movimento e l’esercizio fisico, la fatica, il sudore? O che la società sportiva, la squadra, il gruppo, quel meraviglioso quotidiano contatto umano, talvolta chissà al limite del fallo, fossero i migliori interpreti di quel grande bisogno di socialità che esiste nel Paese. Cosa farà ora il Csi? La mancanza di chiarezza su cosa sia o no sport (un tempo le componenti per definirlo erano gioco, movimento, regole ed agonismo) e di una riforma che ne definisca le sue funzioni, le responsabilità e le divisioni dei compiti genera confusione. Ne parleremo ad Assisi, prossimamente, dove rifletteremo insieme anche su questo crescente fenomeno dello “sport digitale”, di certo non esecrabile “tout court”, cercando forme e modalità che possano mescolare giochi reali e virtuali. Penso subito a sistemi “polisportivi” che possano, a partire dall’infanzia e dall’adolescenza, allenare e produrre ancora più aggregazione e meno obesità. Ci interessa questo, in un tempo in cui la vita sembra però giocarsi in un istante. È vero, c’è tanta delusione e amarezza nelle tinte azzurre del “quadro svedese”, dal palo di Darmian, al pianto di Buffon, ma non possiamo vincolare la vita ad un gol. Vinceremo altri Mondiali, non solo alla Playstation, se saremo e sapremo essere sportivi. Atleti, allenatori, dirigenti leali, corretti... cavallereschi. Così anche chi ha perso la partita sarà sempre un vincente.