Nel giorno di Pasqua la «rivoluzione» della sillaba
Sillaba per la grammatica italiana è la minima parte in cui si può suddividere una parola, una sezione pronunciata tutto d’un fiato ma incapace di raccontare, di dire, di esprimere un pensiero. Tuttavia ci sono sillabe che, nella loro piccolezza e brevità, hanno in sé la forza di cambiare il senso del discorso, di imprimere una sorgente vitale capace di allargare lo sguardo su di sé e sulla vita. Così capita di ascoltare la notizia che in Galilea è “sorto” un nuovo profeta che ha annunciato l’amore di Dio e non si è risparmiato nell’amore per gli uomini, salvo poi incontrare una fine cruenta e il fallimento della sua missione. Ma il racconto non finisce così. Sono bastati tre giorni, un tempo ben delimitato, per accorgersi che quel profeta, Gesù di Nazareth, è “ri-sorto”, come aveva promesso.
Due semplici lettere a formare una delle sillabe più rivoluzionarie del vocabolario italiano, capace di fare la differenza e talmente potente da lasciare un segno nella storia. Così quella pietra che stava a ostacolare il sepolcro è “ri-baltata” per una nuova speranza di vita; il passo stanco e deluso dei discepoli trova nuovo fiato per i polmoni ed energia nei propri passi per “ri-tornare” e dare l’annuncio; chi si era allontanato convinto dei propri peccati o della propria giustizia si trova sorprendentemente “ri-conciliato”.
Una semplice sillaba che, grazie alla forza di Dio, cambia la vita. Come Irene Villa, che a dodici anni perde entrambe le gambe in un attentato dell’Eta, colpevole solo di essere la figlia di un funzionario di polizia.
Quando la mamma la va a trovare sul letto di ospedale la invita a riflettere: «Qui ci sono due possibilità: o essere arrabbiati e cercare la vendetta oppure ri-nascere e iniziare un’altra vita». Non ci ha pensato due volte ed è tornata a vivere senza due gambe ma raggiungendo l’apice nello sci paralimpico, diventando mamma di due figli, esercitando la professione di psicologa motivazionale dello sport. Come quelle parole rivolte a Klaudio Ndoja dal prete che l’aveva notato sul campetto dell’oratorio di Palazzolo Milanese: «Sei forte a giocare a pallacanestro, sai? Da dove vieni?». Lui viene da Valona, Albania, dopo una lunga attraversata, con il mare mosso, stipati come sardine su una piccola imbarcazione. Poi una vita da invisibile ma quella parola lo spinge a ri-cominciare a muovere i passi sui parquet italiani: prima a Desio e dueanni dopo a Casalpusterlengo fino ad arrivare a capo d’Orlando nel 2007-08 per vivere la sua prima stagione in Serie A. Quell’incontro gli ha ri-dato speranza: «Io sono stato, come tanti, un invisibile. Ho dovuto combattere contro razzismo e pregiudizi. Ma ce l’ho fatta.
L’importante è non mollare, credere nel proprio talento e non cercare scorciatoie o vie sbagliate». Come ha fatto Dio nel giorno di Pasqua, che ha esaltato la forza della sillaba “ri”, ridando la vita a suo Figlio perché ciascuno di noi potesse sentire l’impronta delle sue dita e il calore delle sue mani nel rimodellare la propria esistenza a immagine e somiglianza del Risorto: bellissimi e splendenti di vita nuova.