Società sportive “lucrative”: finiscono prima di nascere?
Il loro nome probabilmente ha portato sfortuna, perché il “lucro”, che in realtà è il motore che muove ogni persona al mattino verso il proprio luogo di lavoro, viene sempre visto come un termine negativo o peggiorativo. Questo errore strategico e dialettico ha portato a posizionare le società sportive dilettantistiche “lucrative” in un tormentone senza fine di Presidenti di Enti di Promozione Sportiva, Parlamentari, funzionari e dirigenti di Federazioni e CONI (per intenderci, tutta gente che, contrariamente ad un titolare di palestra privata, ogni mattina non si alza dal letto per andare a lavorare “lucrando”, cioè guadagnando lo stipendio, ma lo fa gratuitamente per la Gloria di Dio) che si sono scagliati contro questo modello di società sportiva, concepita (male) nella Legge di Bilancio 2018 e, proprio perché osteggiata da tutti per il nome che portava, mai partorita. E che mai, probabilmente, nascerà, a detta degli esperti del settore, abortendo miseramente prima ancora di vedere la luce.
Forse se le avessero chiamate “Società Sportive Dilettantistiche con finalità di profitto” sarebbero state più accettate; un nome più realistico che le poteva comunque distinguere dalle cosiddette “Società Sportive Dilettantistiche senza finalità di lucro”; sempre dopo aver dimostrato, talvolta con qualche imbarazzante difficoltà, la vera assenza di finalità di lucro di queste ultime, sempre difese da Enti di Promozione e Federazioni. Qualcuno ha pure detto che il mondo dello sport ha voluto attaccare chi voleva pagare le tasse (magari risparmiando un pò di soldi), tutelando chi trova escamotage per non pagarle, forse per evitare che si instaurasse una brutta abitudine. Se è una battuta non fa ridere; però di certo c'è che attaccare le “lucrative” e magari abolirle, non è stata comunque una cosa perfettamente coerente e lungimirante. Di sicuro sappiamo che non è il regime fiscale applicato che definisce l’etica di una attività. Di sicuro non c’è differenza tecnica, sportiva o sociale tra una palestra di fitness che versa l’Iva e una che non la versa, tra una che paga i contributi agli istruttori e una che non li paga. Così come non c’è differenza morale tra un Titolare di palestra che porta a casa 3mila euro al mese di "lucro" e un Presidente di palestra che porta a casa 3mila euro al mese di "compenso". Dire il contrario sarebbe onestamente ridicolo.
Questo spiega la tanto discussa decisione del CSI di smarcarsi nettamente dai cori, talvolta non totalmente privi di ipocrisia, che si scagliano contro le “lucrative”; una posizione, quella del CSI, non compresa, spesso assoggettata a interpretazioni pretestuose e strumentali. La nascita della “lucrative” non è il punto più importante della posizione del CSI. Anzi, una Legge che aveva pensato di normare la materia (magari migliorabile, siamo d’accordo), di far rientrare centinaia di migliaia di sportivi nel “sistema CONI” e nell'alveo delle sue regole, con tanto di impatto positivo in termini di tutela sanitaria e di assicurazione obbligatoria, e che avrebbe potuto contribuire a sostenere anche economicamente le Federazioni Sportive e l’attività promozionale degli Enti, non può e non deve essere definita del tutto sbagliata. Il CSI l’ha definita semplicemente incompleta; vengano pure le norme (magari più restrittive?) sulle società sportive di profitto, a patto però che un Governo che dice di avere a cuore il bene di TUTTI i cittadini, inizi a mettere a fuoco anche le piccole società di quartiere e di parrocchia, con molti meno profitti ma con le stesse difficoltà, riconoscendo a loro quella dignità sociale e legislativa che l’assenza di lucro eleva anche ai più alti livelli etici.
Come sempre in Italia si perde più tempo ad abolire le Leggi fatte dagli altri, piuttosto che a migliorarle (nessun Governo sfugge mai a questa sordida tentazione), e abolendo la normativa sulle società lucrative si rimetterà indietro l’orologio di otto mesi: chi pagava le tasse e i contributi dovrà continuare a farlo per intero, combattendo contro la concorrenza dei prezzi di chi dice di non aver lucro e svolge lo stesso lavoro in esenzione di imposte evitando di assicurare un futuro previdenziale ai propri giovani istruttori. Una abolizione che, come la precedente approvazione, non degna di uno sguardo le piccole società che, la vera assenza di lucro, la vivono tutti i giorni come una bruciatura sulla pelle dei tanti dirigenti ed “animatori sportivi” (ottima e verissima definizione dell’On. Giorgetti) che non solo non ci guadagnano, ma per il bene dei loro ragazzi e delle loro comunità locali, spesso ci rimettono i soldi della benzina e anche qualche rischio personale.
Insomma, questa legge sulle lucrative ha avuto il “merito” di distogliere l’attenzione dai veri problemi dello sport di base, dove una associazione con un bilancio da 20mila euro deve sottostare alle stesse norme di chi ha un fatturato da 400mila, dove giovani laureati in scienze motorie trovano l’unico sbocco lavorativo per portarsi a casa il pane, ma poi nessuno si preoccupa della loro pensione e della loro dignità. Nessuna voce si alza per parlare di come viene gestito il patrimonio investito dallo Stato ogni anno nello sport, come viene distribuito, con quali criteri e proporzioni, come viene speso e che risultati porta. Nessuno si è concentrato sulle regole contraddittorie e incomprensibili di un Registro ASD che era nato con uno scopo, ma ora sta diventando uno strumento pubblico atto a soffocare di lacci e laccioli le piccole associazioni, con vantaggio di quelle grandi (sicuramente no profit, per carità). Tutti a urlare contro i “ricchi” ma nessuno che muove un dito e gli occhi verso i veri “poveri” dello sport, verso lo sport di inclusione sociale, di aggregazione educativa, di solidarietà civile, di cittadinanza attiva; tantomeno chi blatera sul fatto di essere nato proprio per questo. E ciò significa che il nostro, purtroppo, non è sempre un “Bel Paese”. Un Paese, il loro, che è sicuramente molto diverso dai progetti di sport sociale illustrati il 6 luglio 2018 nel convegno “S Factor” a Roma; progetti veri e concreti nelle periferie sociali della nostra bella Italia, anche se chi li ha realizzati aveva “osato” sporcarsi le mani dicendo semplicemente che nello sport, pur con regole diverse, c’è posto per tutti, anche per quei furbastri che osano pagare le tasse.