Videogame, il rischio di rimanere in panchina a guardare
Quando mi affacciavo all’età dell’adolescenza cominciavano a farsi largo i primi giochi elettronici. Si trattava di collegare una consolle alla televisione e dopo alcuni minuti (sembrava un’eternità) apparivano sullo schermo a tubo catodico un campo, che doveva essere simile a quello di tennis, e due piccole sbarrette nelle rispettive metà campo che rappresentavano i tennisti. La pallina era quadrata.
Si doveva colpirla e mandarla nel campo avversario impostando tre livelli di velocità. Lo confesso, non ero per nulla bravo e mi accontentavo del primo livello: lento. Un po’ mi annoiavo e preferivo correre in oratorio a farmi una bella sudata con gli amici rincorrendo un pallone. Oggi quei videogiochi si sono evoluti e addirittura sembrano chiedere casa al Comitato Olimpico Internazionale per essere riconosciuti come disciplina olimpica con la denominazione di Esports. Gli Esports sono, appunto, gli sport elettronici, la competizione con i videogames a livello professionistico. Il mercato in questi ultimi anni è cresciuto a dismisura e i tornei vengono organizzati come qualunque altro evento sportivo, con arbitri e commentatori specializzati.
Sono competizioni che richiedono una grande preparazione fisica e mentale. In questi giorni ho partecipato ad un simposio con esperti del settore per cercare di dare una risposta alla domanda se davvero anch’essi potessero essere considerati sport. Mi sono avvicinato con la curiosità di chi non conosce molto ma con la libertà di chi riconosce che solo chi è vecchio non tollera la novità. Tuttavia ho voluto ascoltare senza rinunciare all’animo e alla mission della nostra Associazione, Centro Sportivo Italiano, che verso lo sport ha sempre trovato un’occasione per educare, cioè preparare i giovani alla vita. I giovani vanno cercati dove sono, senza attendere che vengano per diritto acquisito da noi. La maggior parte degli appassionati di Esports sono giovanissimi, i cosiddetti nativi digitali, che preferiscono questi allo sport tradizionale, con i loro sogni e le loro attese, le loro passioni e le loro fatiche. Non bisogna giudicarli con troppa fretta e neppure ammonirli che troppa tecnologia fa male. È sempre l’eccesso che trasforma in patologia un’abitudine. Anche giocare troppo, o solo, a pallone può far male.
L’importante, per crescere bene, è che ciascuno possa fare esperienza della sua integralità, cioè che sviluppi insieme la sua testa, il suo corpo, le sue relazioni, la sua anima e non solo una parte di queste. Noi abbiamo voluto che al centro, nello sport, ci fosse sempre l’uomo inteso come persona, cioè colui che è fatto per le relazioni “in carne e ossa”. Lo sport è una grande opportunità per arricchire le proprie competenze sociali. Giocare, muoversi, saltare, correre è sempre un’occasione per crescere ma guardare per tanto tempo delle figure che giocano al posto tuo mi fa tornare in mente ciò che disse Pelè a Michael Caine in Fuga per la vittoria: “Io voglio giocare, Colby”, non restare in panchina a guardare.