Quando un piccolo virus riesce a fermare il gioco
L’Ex allenatore del Liverpool, Bill Shankly, si lasciò scappare questo commento: «Alcune persone pensano che il calcio è una questione di vita o di morte. Vi assicuro che è molto di più».
Una frase un po’ enfatizzata sicuramente e pronunciata alla fine di una partita ma con una terribile verità: la paura che tutto possa finire male.
La paura si presenta sulla scena della vita con il volto del “rischio”: rischio di fallire, di sbagliare, di perdere, di ammalarti, di morire... di contagiarti.
Come nel caso del coronavirus. Ora che è arrivato anche in mezzo a noi a guastare i nostri giorni come ospite inatteso d’improvviso ci sentiamo più fragili e privati della nostra libertà. Anche le nostre attività sportive si fermano. Da un sano divertimento, capace di educare e far crescere generazioni di ragazzi, in questo primaverile febbraio diventano una possibile minaccia alla collettività. Questo stop forzato forse ci fa bene. Ci fa bene perché il coraggio non è mai un semplice impulso a reagire ma il rientrare in se stessi per sottrarsi ai vincoli esterni e decidere una risposta. Avere coraggio significa anche vedere l’occasione e afferrarla. Allora questa pausa può diventare l’occasione per ritrovare il senso più vero dello stare insieme. Uno degli effetti del virus è quello di separare, di allontanarci, di rinchiuderci proprio in un tempo in cui ci sentivamo cittadini del mondo, legati gli uni gli altri da un estremo all’altro del pianeta. Ma ora siamo privati addirittura dei nostri compagni di gioco, della nostra squadra con la quale affrontare qualsiasi temibile avversario. Ci è chiesto di rinunciare a qualcosa di nostro per sentirci parte di una comunità più ampia, il mondo intero.
Nella città in quarantena descritta nel romanzo La Peste di Camus, il giornalista Rambert, rimasto intrappolato casualmente, lavora attivamente nell’équipe dei volontari ma non cessa di architettare piani di fuga per tornarsene dalla donna che ama.
Quando finalmente tutto è pronto ed egli potrebbe fuggire, comunica ai suoi amici che ha deciso di restare. Gli altri cercano di convincerlo. Il più autorevole, il dottore, «disse con voce ferma che la cosa era stupida e che non c’era vergogna nel preferire la felicità». «Sì», disse Rambert, «ma ci può essere vergogna nell’esser felici da soli». Questo stop alle nostre attività, conseguenza di ordinanze per il bene pubblico, più ampio di quello sportivo, è un’occasione per farci carico della vita di tanti altri uomini, riscoprire un’appartenenza che spesso dimentichiamo e che non si può rinnegare e che gradualmente rifacciamo nostra. Magari anche con una preghiera.