Riforma del lavoro sportivo: la base merita rispetto
Ci sono cambiamenti che avvengono nel silenzio mediatico nonostante siano potenzialmente dirompenti. Se entrassimo oggi in un bar per un caffè e ascoltassimo le conversazioni in tema di sport sono certo che sentiremmo discutere di Juve e di Mondiali, due punte di iceberg ancora sommersi. Nessuno parla invece dell’attività sportiva gestita come servizio educativo e formativo per i giovani e come momento d’importante aggregazione per i meno giovani. Ma lo sport cosiddetto minore è quello più importante, diffuso e radicato sul territorio, cioè quello da aiutare davvero. Non mi riferisco agli opportuni quanto fondamentali sostegni economici che lo Stato dovrebbe sempre garantire allo sport di base, ma alla necessità che lo Stato fissi bene i criteri entro i quali poi possano muoversi i vari soggetti, secondo i talenti diversi e le differenti visioni associative. Criteri di buon senso e che diano certezza. La realtà rappresentata dagli Enti di Promozione Sportiva, di cui il CSI è una espressione particolarmente significativa, è potenzialmente molto forte, in grado di svolgere il proprio compito, capace di superare le spaventose crisi della pandemia e della guerra, ma non può continuare a vivere nell’incertezza normativa. Chiaro il riferimento alla più volte annunciata (e sempre prorogata) riforma del lavoro nello sport. Sono mesi che se ne parla, proponendo aggiornamenti, perfezionamenti, adeguamenti. Che sia partita male, con una valutazione negativa dell’attuale assetto del lavoro sportivo, è ormai fin troppo evidente.
Qualcuno si è convinto che lo sport di base fosse una sacca poco trasparente e che fosse necessario intervenire con la falce, per fare pulizia. Non è così, poiché bisognerebbe iniziare dal rispetto verso chi per decenni si è assunto compiti spettanti alla società, visto che lo Stato direttamente non li può assumere. E così il mondo dello sport di base è cresciuto nel tempo, affinando capacità gestionali e imprenditoriali.
È arrivato il tempo di una riforma? Sì, ma con un atteggiamento del legislatore rispettoso e non punitivo. Sarebbe infatti difficile se non impossibile ricostruire un tessuto di persone, che con poco sanno realizzare grandi progetti attraverso la gestione dell’attività sportiva a misura d’uomo.