Non è ancora possibile decifrare con certezza se i gravi incidenti che domenica scorsa hanno fatto seguito, in diverse città, alla morte del giovane Gabriele Sandri siano stati ispirati dall’ideologia ultras, e quindi siano figli del calcio, o siano nati come rivolta contro lo Stato, e quindi siano figli di una politica estrema che nel calcio vede solo un palcoscenico su cui misurarsi. Più probabilmente i due mondi tendono a contaminarsi a vicenda, come da anni leggiamo in indagini sociologiche e rapporti delle forze dell’ordine. Ma la questione, in fondo, interessa relativamente: il fatto preoccupante è che masse giovanili numericamente sensibili coltivino dentro di sé, nei confronti dell’ordine costituito, una rabbia, un odio che li porta ad assalire caserme di Polizia e devastare interi quartieri. L’interrogativo vero, allora, non può che riguardare il come e il perché tanti giovani si lascino affascinare dalla violenza, calcistica o politica che sia. Il calcio e le istituzioni hanno tutto il diritto di provare a difendersi blindando gli stadi, monitorando le tifoserie, imponendo restrizioni e leggi più severe. Ma l’impressione è che ciò non basti, non incida davvero, che sia soltanto un modo di curare il sintomo del malanno e non il germe che lo provoca. Bisognerebbe piuttosto andare a scoprire qual è l’humus che fa crescere tanti ragazzi nella convinzione che lo Stato e i suoi rappresentanti siano nemici da contrastare con la violenza; in quali sacche sociali si forma il malessere; quali sono i “cattivi maestri” che certe idee fanno germinare e probabilmente sfruttano. L’ultras, calcistico o politico, va fermato ben prima dei cancelli di uno stadio, va fermato prima che diventi ultras, quando la sua personalità di ragazzo è ancora in formazione ed è possibile insegnarli concretamente il valore della democrazia, della convivenza pacifica, del rispetto delle leggi, della comprensione dell’altro. Il problema è, ancora e sempre, educativo. Purtroppo l’educazione manca maggiormente proprio lì dove ce n’è più bisogno, nelle grandi marginalità giovanili. Il calcio e lo sport facciano la loro parte, entrando nelle scuole e nelle zone difficili per educare e non per cercarvi futuri campioni, per parlare a tutti i ragazzi, per insegnare loro ad amare fino in fondo la vita e quei valori fondamentali che la rendono degna di essere vissuta.