-IL PUNTO- Quanto disordine nell'industria del pallone
Tra gli effetti negativi del periodico riaffiorare del tifo violento, con tutta la sua drammatica urgenza, c’è anche quello di distogliere l’attenzione da altre questioni che toccano il pianeta del pallone professionistico. A meno di sorprese, presto arriverà una diversa e più equa ripartizione dei proventi televisivi, a beneficio dei club medi e piccoli. Che fine farà quel denaro in più nei loro bilanci? Logica imprenditoriale vorrebbe che almeno in parte fosse investito sul futuro: in impianti, in settori giovanili, in iniziative per promuovere la cultura sportiva e il legame con il territorio. Possiamo scommettere che non sarà così, e alla fine ogni euro disponibile andrà ad impinguare gli ingaggi dei giocatori. Il fatto è che il calcio proprio non riesce a vivere nelle regole dell’imprenditoria, per la quale è saggio che parte percentuale dei ricavi se ne vadano in ricerca, in sviluppo, in acquisto di macchinari e materie prime, in promozione del prodotto. Si è mai visto nell’imprenditoria “vera” un titolare d’impresa andare dal sindaco del luogo e chiedere che gli siano forniti gratis, a spese del contribuente, terreni, capannoni e attrezzature? Nel calcio accade. Si è mai visto che un settore di impresa si rifiuti di arrivare ad una contrattazione collettiva per definire gli stipendi che spettano ai dipendenti? Nel calcio, che pure ha voluto che i giocatori fossero inquadrati per legge come lavoratori dipendenti, beffa per i cittadini che vivono davvero di stipendio fisso, è la norma. Il fatto è che ormai non si capisce più cosa sia davvero il nostro calcio: né sport, né industria, né spettacolo, né festa popolare; è un po’ di questo e un po’ di quello, un minestrone senza regole che incomincia a non piacere più nemmeno ai tifosi tutti passione e bandiera. Aver consentito che ai club professionistici fosse riconosciuto il fine di lucro non ha migliorato la situazione, non ha frenato gli sperperi come si pensava, probabilmente le cose le ha peggiorate e bisognerebbe prenderne atto. Capace negli ultimi 10-15 anni di macinare crescenti incassi stratosferici, eppure inesorabilmente votato a spendere più di quanto ricava, con bilanci sempre traballanti, questo calcio andrebbe ripensato nella sua vocazione primaria, nella sua stessa essenza. È un sogno, ma sarebbe bello se si riuscisse a farlo tornare, almeno un poco, quel patrimonio della collettività, che è certamente stato alle origini della sua storia.