Giovanni Paolo II, atleta di Dio
La formazione della Clericus Cup
La Clericus Cup, alla sua nona stagione calcistica, celebra, fuori dal campo, un bell’incontro formativo. Focus su Papa Wojtyla e lo sport.
Del Giovanni Paolo II sportivo se ne è parlato molto negli anni. Ma il tema acquista una rinnovata attualità grazie al lavoro del consulente ecclesiastico nazionale CSI don Alessio Albertini, che rileggendone le udienze, le allocuzioni e i discorsi rivolti al mondo dello sport – circa un’ottantina – ha ricostruito in maniera agile ma completa il pensiero del Santo Padre polacco nell’opuscolo intitolato “Giovanni Paolo II Atleta di Dio”, presentandolo nel seminario formativo indetto al Pontificio Collegio Internazionale Maria Mater Ecclesiae per i sacerdoti e i seminaristi partecipanti alla Clericus Cup.
Papa Wojtila, che da giovane raccontava Gesù ai giovani portandoli a fare canoa, a sciare, a svolgere passeggiate in montagna, ha capito la grandezza dello sport per avvicinare le nuove generazioni alla parola di Dio, intuendone innanzitutto la capacità penetrativa nella mentalità della gente. Da allora, egli ha saputo costruire una vera e propria teologia dello sport, che si traduce in azione concreta attraverso una pastorale che faccia dello sport un servizio per l’umanità e che promuova l’educazione sportiva per apprendere valori e allenarne le virtù, nella quale tutte le forze del mondo sportivo – dal Coni alle Federazioni, sino agli atleti stessi – devono sentirsi coinvolti.
L’allenamento dell’anima è un concetto molto caro a Giovanni Paolo II ed è anche uno dei punti cardine del progetto ciessino. Come afferma don Alessio, “a noi interessa capire cosa anima i gesti esteriori dello sport – l’azione, il tiro, il passaggio, l’assist – perché facendo questo potremo aiutare le persone che fanno sport a crescere spiritualmente, a tradurre il coraggio, la passione e la lealtà che li anima in valori cristiani.”
Parlando di atleti, don Alessio ha portato nel corso del seminario dei fulgidi, ma poco noti esempi di campioni, che nel loro percorso di vita, hanno saputo fare il bene rinunciando alle medaglie, scoprendo poi che questo bene, magicamente o no, si sarebbe poi riversato su essi stessi.
E’il caso del celebre bobista Eugenio Monti - che possiamo definire l’Armin Zoeggler degli anni 50/60 – sino al 1964 aveva vinto tanti allori a livello mondiale ma non nelle Olimpiadi. La grande occasione gli si presentò ad Innsbruck , quando al termine della prima manche si trovò finalmente in testa davanti gli acerrimi rivali inglesi. Questi ultimi si accorsero che per colpa di un bullone fuori uso il loro bob era praticamente inutilizzabile; quindi, gara finita. Ma Monti fece l’altruistico gesto di staccare un bullone dal suo mezzo e di donarglielo: in tutto ringraziamento, gli inglesi andarono a vincere la gara. Ebbene, per questo gesto l’italiano ricevette, primo atleta al mondo, la medaglia d’oro intitolata e Pierre de Coubertin. E quattro anni dopo, alla veneranda età di 40 anni, vinse addirittura (ricompensa!) ben due titoli olimpici!
Forse meno sofferta, forse, ma certamente non da tutti, la scelta di Tasha Danvers-Smith, atleta britannica dei 400hs che rinunciò alle Olimpiadi di Atene 2004, dove avrebbe sicuramente salita sul podio, essendo rimasta incinta. Ciò comunque non le impedì di proseguire la carriera e di vincere la medaglia di bronzo nel 2008 a Pechino.
E ancora, la bellissima storia di Lopez Lamong, profugo sudanese che da bambino riuscì a scappare da un campo profughi nel Darfur, correndo per 10 chilometri per fuggire dal brutto destino che lo attendeva: quello di diventare un baby soldato. Arrivato negli States Lamong divenne un vero atleta, anche se non di eccezionali qualità, specialista nei 1500. Ma nel 2008 divenne addirittura atleta olimpico e non solo, il team statunitense lo elesse a portabandiera.
Cosa dire, poi di Henry Rono, mezzofondista kenyota che nel 1978 batté 4 record del mondo in 81 giorni: 3000 metri, 3000 siepi, 5000 e 10000. Poi, fu sopraffatto dall’alcool e dalle cattive amicizie. Ma proprio quando ormai sembrava fosse caduto in una spirale irreversibile, ebbe la forza di risorgere. La trovò in se stesso, certamente, ma ad aiutarlo fu anche un tecnico di atletica leggera che lo riconobbe all’aeroporto di Albuqerque (Usa, Nuovo Messico), dove lavorava come facchino. Per Rono cominciò così una seconda vita: insegna atletica nelle scuole e si allena molto seriamente per le gare dei masters.
Quattro casi che parlano di altruismo, solidarietà, tenacia, rispetto dei valori civili e cristiani. Quattro modelli di atleta da ammirare ed imitare, al di là dei risultati conseguiti. Quattro storie che vivificano la fratellanza universale e la formazione integrale che Giovanni Paolo II ravvisò tra gli atleti stessi, fatta di sfumadi “un rispetto sincero per tutte le persone e un vivo apprezzamento delle doti e delle capacità altrui”. Quattro storie per evidenziare come “l’uomo sia la prima e fondamentale via della Chiesa”. E quando si è riconosciuti nella vita come persone, oltre che star, campioni, eroi, allora si è raggiunti un traguardo e si è fatto crescere.
La Clericus Cup, il Mondiale calcistico della Chiesa, è obiettivamente il simbolo sportivo di una Chiesa universale. Nel ringraziare don Alessio Albertini, il rettore del Collegio Mater Ecclesiae, lo spagnolo padre Oscar O’Turrion ha così invitato ciascuno dei rappresentanti, sacerdoti della Clericus Cup a concelebrare una Santa Messa da sportivi, ciascuno con la sua storia diversa alle spalle, proveniente da differenti realtà geografiche del mondo, ma uniti dalla medesima fede in Dio, dalle stesse prospettive di vita, e dall’indossare oggi i paramenti, dopo aver vestito la maglia da calcio, della Clericus Cup, con su scritto “Giochiamo in attacco la partita del Vangelo”.
A celebrare con don Alessio Albertini e padre Oscar sull’altare della Cappella della ‘Madre Celeste’ ecco allora il portiere della Spagna Isaac Moreno Sanz, il centrocampista belga Emmanuel De Ruyver, il brasiliano Adenis De Oliveira, il centrale spagnolo Luis Antonio Monge García, il nigeriano Benedict Ahamioje, insieme al diacono Oscar Velasquez e a padre Felipe Villagomez del Mater Ecclesiae.
In Chiesa anche altri rappresentanti della Gregoriana, del Collegio San Pietro, degli Agostiniani, del Pio Latino, un bel momento di comunione e di fraternità, prima dei quarti di finale, con la partita del Vangelo e dell'evangelizzazione, per tutti unica da vincere e da far vincere.