Accolgo con un po’ di “nostalgia” questa terza edizione della Clericus Cup. Nostalgia perché mi tornano alla mente le innumerevoli partite giocate durante gli anni di seminario. Non c’era acqua o neve, e neppure studio che tenesse. Ogni pomeriggio era sempre una buona occasione per dare due calci al pallone. Nostalgia anche perché devo proprio all’incontro con un prete che giocava a pallone il coraggio di decidere di entrare in seminario. Anche da prete questa passione non mi ha mai abbandonato, anzi… ci ho rimesso caviglie e “tendine d’Achille”. Non è stata però soltanto la voglia di giocare che mi ha spinto a non abbandonare il calcio, ma la segreta certezza che anche nel calcio e con il calcio era possibile «fare il prete». In ogni parrocchia c’è sempre anche un campo o una palestra abitata dalla gioia e l’entusiasmo dei giovani. Ho sempre pensato che anche quella potesse essere una casa per un prete. Innanzitutto perché dove c’è l’uomo, c’è anche la Chiesa. In ogni attività in cui l’uomo cerca di manifestarsi, sviluppare le proprie capacità, cercare una pienezza di vita, creare relazioni, giocare la propria passione inevitabilmente è chiamata in causa un’umanità rinnovata e ricca come quella di Gesù di Nazareth. Guardando a lui e seguendo lui l’uomo può diventare più uomo, secondo una felice espressione della Gaudium et Spes. Dal momento che è proprio della missione di Gesù cercare l’uomo lì dove esso vive, non solo nelle mura del tempio ma ad un pozzo, sulla strada, fuori dalla porta di casa, alle nozze, non si può non tenere conto del gran numero di uomini e donne, ragazzi e ragazze che su un campo cercano di diventare più uomini. Non è difficile associare un campo con un oratorio. Ma l’oratorio, prima di essere un insieme di iniziative e strutture è soprattutto “passione educativa”. È abitato da persone cui sta a cuore la crescita dei ragazzi. Non basta allora pensare che un campo da solo sia sufficiente per fare del bene, occorre avere anche persone che fanno il loro dovere con passione, competenza, fermezza. Indicando le priorità e la strada da percorrere. Chi lavora nello sport ha bisogno di essere sostenuto e valorizzato. Lo sport, in oratorio, non può più essere visto soltanto come un riempitivo del tempo libero ma come una straordinaria opportunità educativa. Quando si parla di sport, anche nei nostri ambienti parrocchiali, si parla tutti della stessa cosa: gol, fuorigioco, passaggio, tiro, allenamento, partita… tutti intendono la stessa cosa. Per parlarsi bisogna capirsi, altrimenti non si comunica. Penso che stare su un campo faciliti un prete a parlare con i ragazzi. Certo è un linguaggio diverso da quello che solitamente si usa per educare, tuttavia è un buon punto di partenza.