Senza nulla togliere al CONI ed alle sue competenze in materia di sport, è indubbio che nell’Italia del dopoguerra vi sia stata una consolidata sovrapposizione fra lo sport inteso come pratica attinente alla sfera dei diritti sociali o di cittadinanza, e lo sport agonistico, o, per meglio dire, allo sport come sistema di regole che risponde ad un proprio ordinamento specifico ed autonomo, dalle Federazioni agli Enti di promozione sportiva fino al Comitato Olimpico Nazionale. Negli ultimi decenni, poi, il panorama della pratica sportiva, in conseguenza di numerosi cambiamenti sociali e culturali, si è enormemente dilatata: mentre si viaggiava verso gli attuali quindici milioni di cittadini praticanti, la promozione sportiva vedeva nascere sempre nuovi soggetti associativi. Lo stesso mercato dello sport si è impadronito di una fetta importante di “clientela”, con il sorgere ovunque di centri sportivi tutti dediti a scolpire e modellare corpi, e tantissimi altri impegnati a costruire torneifici di calcetto “usa e getta”. Da quando una parte dello sport si è trasformato in mera agenzia di fornitura di servizi sportivi, ha fatto lievitare organizzazioni di tutte le razze, vere aziende con un enorme fatturato. Lo stesso mondo del volontariato sportivo, così esaltato e così nobile per aver gestito e fatto crescere l’intero sistema sportivo nazionale, si è “inquinato” di affarismo e talvolta, duole dirlo, di malaffare. In questa rincorsa al business, resta il dubbio se veramente lo sport ancora assolva al suo compito originario, e cioè accogliere, integrare, allenare alla vita oltre che ai gesti tecnici: in poche parole, educare. Vale la pena chiedersi come si può arrestare la deriva, come è possibile, senza stravolgere gli aspetti positivi dell’attuale sistema sportivo, modernizzare l’offerta, in particolare restituendo alla pratica sportiva di base quel ruolo educativo capace di far crescere generazioni di ragazzi senza l’ossessione di diventare campioni a tutti i costi ma solo bravi cittadini. È questo lo sforzo lodevole che sta compiendo la commissione promossa dal Ministero dello sport e delle politiche giovanili per ridare uno spessore culturale all’attività sportiva ed affermare il diritto e la necessità di una pratica sportiva socialmente orientata e che sia parte dei diritti di cittadinanza. Non siamo così ingenui da non capire che in questo momento il sociale è strutturalmente debole e marginale, e quindi difficile da sostenere. Ma il tentativo va fatto. Una larga fascia della nostra gioventù sta sperimentando sulla propria pelle la sofferenza della smarrimento e della solitudine, mentre le sue provocazioni e i suoi perché restano senza risposta. Uno sport più lontano dal mercato e più vicino alla persona sarebbe il benvenuto.