Diceva San Giovanni Crisostomo: «Parla il ricco e tutti gli danno ragione. Parla il povero, nessuno gli dà retta. Non posso tollerare questa stoltezza». Se questo era un problema nella società semplice che c’era alla fine del IV secolo, non bisogna stupirsi che lo sia molto di più oggi, nella società complessa della comunicazione globale. Chi ha mezzi e potere ha anche voce, e urlando riesce a imporre le proprie ragioni. Chi non ha né gli uni né l’altro, invece, non sa come farsi intendere, e finisce con l’avere sempre e comunque torto. Il sistema sportivo italiano non sfugge a questa tenaglia. La supremazia mediatica appartiene ai «ricchi dello sport», al grande circo del professionismo e dello spettacolo, dei quali ogni sospiro è amplificato. Ma dello sport educativo, di promozione umana e sociale, delle sue istanze e dei suoi problemi, chi parla? Chi gli presta un po’ di interesse? Rimane sempre lo sport povero, o meglio, dei poveri, anche se praticato da milioni di cittadini, in gran parte giovani e ragazzi. Rimane sempre all’ombra dei media, sempre in fondo alla scala dell’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica. Oggi sembra che qualcosa possa cambiare, grazie al coraggio del ministro Melandri e dell’infaticabile sottosegretario allo sport, Giovanni Lolli, che hanno intrapreso una non facile battaglia per dare allo sport dei poveri il «diritto di cittadinanza», riconoscendo appunto nella pratica sportiva dei «cittadini qualunque» l’espressione nuova di un vero e proprio diritto di cittadinanza. È una pratica sportiva che risponde ad un emergente bisogno sociale di benessere, di educazione a stili di vita positivi, di rappacificazione con un corpo mortificato dalla sedentarietà; che incrocia il diritto a star bene in salute e soprattutto a stare bene dentro, nell’animo, in armonia con gli altri e con il mondo. Lasciare questo sport nel ghetto di chi è senza diritti e senza voce non è giusto, non è più possibile. Anche perché lo sport di cittadinanza, se incoraggiato, se riconosciuto nella sua dignità e valore, può diventare il motore di un benessere generale che riduce le disuguaglianze, che rimette al centro il valore umano delle persone, che semina educazione, integrazione, civiltà. Ecco perché la presenza del CSI nel mondo dello sport e nella società italiana non può esaurirsi solo in funzione dell’organizzazione di migliaia di tornei di calcio o pallavolo, ma deve rispondere anche a quelle domande di senso e spesso senza risposte che ci pongono le nuove generazioni: come dare significato e senso alla loro vita, praticando lo sport.