Per generale riconoscimento lo sport è una potenziale formidabile agenzia educativa. Affermazione di principio che sembra perdere significato e valore ove la si rapporti agli esempi poco edificanti che derivano dallo sport di vertice, per il modo in cui viene praticato, seguito, gestito e comunicato. Il guaio è che, per ovvie esigenze editoriali, il sistema informativo si occupa in maniera pressoché esclusiva proprio dello sport superprofessionistico, con l’inevitabile conseguenza di trasformarlo in modello di riferimento per ogni altra espressione sportiva giovanile e dilettantistica. Ove si voglia recuperare il patrimonio di valori legati allo sport diventa necessario adeguare anche la comunicazione all’esigenza educativa, superando il comodo alibi in cui ci si rifugia quando si sostiene che, essendo fenomeno sociale, lo sport viene inevitabilmente contaminato dalle negatività e contraddizioni tipiche della società in cui agisce. Certo, è più facile ed ha maggior impatto mediatico la comunicazione che privilegia gli aspetti deteriori nei contenuti e l’aggressività lessicale nella forma, ma, con un pizzico di buona volontà, sarebbe possibile individuare cose buone da riferire e modo adeguato di dirle. Tanto per fare un esempio, nella comune valutazione popolare è radicata un’immagine non positiva dei calciatori professionisti, ritenuti tutti venali, viziati, sciupafemmine, superficiali. In realtà molti di loro possiedono un patrimonio personale di valori e spesso agiscono lodevolmente sul piano della solidarietà e del buon vivere. Comportamenti che però, si pensa, “non fanno notizia” e quindi vengono trascurati da un sistema informativo che privilegia invece il gossip e la chiave comunicativa divistica. Parrebbe consigliabile anche una maggiore compostezza nella forma della comunicazione: troppo spesso il linguaggio con cui si raccontano l’evento agonistico e le gesta dei protagonisti pare mutuato dal lessico bellico, resoconti più consoni al campo di battaglia che alla descrizione di una sana competizione sportiva. Il tutto lascia intendere che, sia pure con una buona dose di buona volontà, non è del tutto utopistico individuare il modo per comunicare anche in ambito sportivo qualche buona notizia e farlo con adeguato linguaggio. Vincendo anche il pudore personale del comunicatore di turno, che talora deve vincere la paura di passare per “buonista”, temutissima etichetta mediatica e non solo.