Vorrei sbagliarmi, ma non riesco proprio a convincermi che basti circondare di barriere e tornelli una ventina di stadi per esorcizzare il pericolo che decine o centinaia di giovani devastino e aggrediscano le forze dell’ordine, come sono soliti fare, ad esempio, certi no global estremi, che pure sono tifosi solo di se stessi. Con questa pulsione a buttare tutto per aria, pestando e ferendo chi si oppone, il calcio c’entra poco, è solo un pretesto. Si sa da tempo che per certi cattivi soggetti il calcio è anzitutto un palcoscenico che assicura visibilità e risonanza alle loro malefatte. Va bene, allora, punire severamente chi delinque negli stadi, ma la repressione lascia inevasa la fondamentale domanda: perché succede? In realtà siamo di fronte ad un comportamento giovanile trasversale nella sua gratuità. Sia che si attenti alla vita altrui, buttando sassi dal cavalcavia, sia che si attenti alla propria, sfidandosi a morire sulle strade del sabato sera, sia ancora che si attenti alle cose, frantumando l’integrità degli arredi urbani, questi ragazzi mostrano di non saper cogliere la differenza tra il bene e il male, di non avere una scala di valori affidabile, di non saper distinguere tra la vita e un videogioco. Se è così, e le cronache ce lo raccontano quasi ogni giorno, i tornelli serviranno forse a mettere in pace le coscienza di qualcuno, a far credere alle istituzioni che hanno fatto quanto richiesto dal loro carico di responsabilità. Ma che succederà domani, quando esploderanno le periferie del disagio, come in Francia? Alzeremo muri, come qualcuno sta già facendo? Metteremo varchi elettronici ai quartieri? Metal detector alle scuole? La cosa giusta l’ha detta il cardinale Bertone: gli stadi sicuri non esimono dal dovere di ripensare l’educazione, partendo dai ragazzi e coinvolgendo la famiglia. Chi parla di violenza insita nel calcio, minacciando la medicina di sospensioni generalizzate delle attività, sbaglia due volte. La prima, perché la violenza entra nel calcio dalla società civile. La seconda, perché senza lo sport praticato, calcio compreso, chissà quanti «maleducati» in più avremmo. Prima di fermare i tornei, bisognerebbe conteggiare quanti ragazzi sono stati salvati dal calcio giocato. Il CSI va avanti per la sua strada con questa convinzione: l’emergenza vera è quella educativa, lo sport è uno strumento educativo «miracoloso», bisogna moltiplicare le occasioni. C’era un tempo, subito dopo la guerra, in cui ogni parrocchia aveva un suo gruppo sportivo, il quale generava ragazzi in gamba. Il nostro sogno è ripartire di lì: una società sportiva in ogni parrocchia.