Giusy Versace: la vita è bella!
Assisi, 10 dicembre 2011.
Fu Joseph Ratzinger, quando ancora non era Papa, a esaltare, in un messaggio, il potere del gioco, ma anche il suo valore, come “esercitazione della vita”. A ricordarlo, stamattina ad Assisi, nella mattinata del secondo giorno di meeting è stato don Mario Lusek, direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale del tempo libero, turismo e sport della Cei, la Conferenza Episcopale Italiana, e da tempo, come conferma lui stesso, grande amico del Csi, che ha definito “avamposto dei credenti nel mondo dello sport”.
Gioco e sport, nella loro proposta di evasione dalla società, diventano “occasione per educare il mondo, laboratorio di riscatto e di potenzialità”. Don Lusek non nasconde i problemi, soprattutto quando si arriva al livello professionistico, con “l’ambiguità rappresentata dalla macchina economico-finanziaria globalizzata”, nella quale troppo spesso “l’uomo diventa un peso, una zavorra, un esubero, quasi una merce, il tutto sacrificato sull’altare di spettacolo e business”. Così una sconfitta non è un evento naturale che, pedagogicamente, vale come e forse più di una vittoria, ma è solo “ricerca delle colpe”.
“C’è troppo mercato attorno allo sport”, completa il concetto il relatore, che però non si lascia andare a conclusioni negative, ma sceglie la speranza: “Se sappiamo costruirlo ed educarlo, anche il campione e il leader diventano un punto di riferimento”. “Il Csi – entra nello specifico don Lusek – è un patrimonio di tutta la Chiesa italiana. Quando la parola educazione sta al centro dell’attenzione di una gara o di un campionato la Chiesa non può che esservi vicina. Quello del gioco è un bisogno primordiale dell’uomo: nel Csi questa sfida è stata raccolta da un’infinità di soggetti, a cui si chiedono sguardi profetici che sappiano andare lontano”. “Il Centro Sportivo Italiano – conclude – è un motore che aiuta le Chiese locali ad andare avanti. Dal gioco molto spesso si riesce a imparare a vivere”.
In un’associazione di un milione di tesserati così capillarmente diffusa sul territorio italiano, non si contano gli esempi che, come ama dire il presidente nazionale Csi, Massimo Achini, “vanno dritti al cuore”. A dar vita a questi, personaggi eccezionali, che il Csi chiama per i grandi appuntamenti e che portano testimonianze in grado di “toccare” le persone. L’anno scorso fu il racconto del Bartali partigiano, fatto dal figlio, a colpire e commuovere il popolo di Assisi, quest’anno è toccato a Giusy Versace, campionessa paralimpica, che perdute entrambe le gambe in un drammatico incidente stradale sei anni fa, ha lottato duramente, fino a diventare una grande atleta (nell’atletica sui 100 metri) tanto da aver centrato il minimo per partecipare alle Paralimpiadi di Londra il prossimo anno.
Se la sua presenza non fosse stata preceduta dal racconto terribile di quello che le è accaduto, mai più si sarebbe pensato che quella bella donna che si muoveva sul palco perfettamente a suo agio potesse avere il fisico segnato da un handicap così grave. Solo il fisico, comunque. Perché ciò che ha detto (e quindi ciò che pensa) è stato uno dei più straordinari inni alla vita che si possano sentire. Donna di successo, imprenditrice, un cognome pesante nel mondo della moda, un tragico giorno, il 22 agosto 2005 finì in auto contro un guard rail. “Capii subito che mi erano state strappate le gambe, ma fin dai primi terribili attimi – racconta – cercai di farmi forza. Non volevo morire. E mi misi a pregare. L’Ave Maria la cominciai mille volte, mentre mi soccorrevano, ma per il dolore che provavo dopo poche parole mi fermavo e ricominciavo. Capii che tranne le gambe tutto il resto funzionava e non potevo che ringraziare il Signore per avermi lasciato in vita”.
Il dolore fisico che Giusy dovette sopportare fu terribile. Non solo nei primi momenti dopo l’incidente, ma anche nelle fasi successive. “L’addestramento è stato duro, sia quello mentale, sia quello fisico – ammette – Le protesi non camminano da sole”. Da handicappata (è lei stessa a dire che non le piacciono i giri di parole, come “diversamente abili” e termini simili) Giusy Versace dice di aver riscoperto la vita: “Prima dell’incidente, di fatto, non trovavo neanche il tempo per parlare con mia madre; mi limitavo a mandarle un sms ogni tanto: molto brutto. Poi ho scoperto che il cuore deve essere pieno di tante cose: ho costituito un’associazione per chi, trovandosi all’improvviso in una situazione analoga alla mia, non ha la possibilità di dotarsi di protesi costose, sono diventata volontaria dell’Unitalsi, per accompagnare a Lourdes persone più sfortunate di me. E al contempo, visto che avevo imparato a camminare, decisi di imparare a correre. Un po’ tutti cercarono di scoraggiarmi; io, calabrese testarda, cominciai a correre quasi per ripicca, rendendomi conto di quanto i portatori di handicap sono ancora, di fatto, ghettizzati. Per molti disabili, fare sport è ancora un lusso”.
“Quando vinsi il titolo italiano – aggiunge – fui proprio contenta: allo stadio c’erano tutti quelli che dicevano che non ce la potevo fare. In fondo devo dire grazie a quella “tremenda voglia di vivere”, che così bene è stata illustrata da don Antonio Mazzi e dal gruppo Juppiter nello spettacolo di venerdì sera. Lì ho trovato la forza: la vita, anche senza gambe, è veramente bella. Nei momenti più difficili, avrei potuto arrabbiarmi con Dio: ai delinquenti spesso non gli capita neanche un raffreddore. Non l’ho fatto: ho capito che Dio si serve di noi per lanciare messaggi. Sarei stata un’egoista a tenere la mia esperienza tutta per me”.
Una sera, in oratorio, l’incontro con il presidente Achini le ha fatto scoprire il Csi e il suo mondo. E Giusy si è sentita subito molto vicina. Oggi dice: “Complimenti per il lavoro che fate”. E si dà disponibile, come sta già facendo, a portare la sua testimonianza all’interno del Centro Sportivo Italiano. E’ un fiume in piena, Giusy Versace; è una che sa emozionare, non solo per ciò che dice, ma anche per la carica d’entusiasmo che arriva dritta a chi la sta a sentire. Oggi ha in testa le Olimpiadi di Londra, poi si porrà un altro obiettivo. Da una così, è facile sentirsi tutti coinvolti. E rappresentati.
Assisi 2011 non dimentica i 150 anni dall'unità d'Italia e l’Inno di Mameli viene interpretato dagli sportivi sordomuti. E’ emozione allo stato puro, da quando parte la musica, all’ultimo crescendo, quando al posto dell’ovazione, un intero teatro alza e agita le braccia e le mani per entrare in piena sintonia con le interpreti. E’ successo anche questo, stamattina, nel ricchissimo programma del Meeting di Assisi. Dopo che il presidente Marco Galdiolo aveva portato il saluto dell’Unione sportiva Acli, è toccato a Felice Pulici, ex campione della Lazio, aprire il sipario sulla Federazione sportiva Sordi d’Italia, nel corso del momento dedicato ai “Campioni senza far rumore”. E se la presidentessa nazionale Daniela Mazzocco ha dato il suo messaggio con il linguaggio dei segni, tradotto per i presenti da un’interprete, quando sul palco sono salite tre donne, avvolte ognuna in un drappo con uno dei colori della bandiera tricolore, la platea ha intuito e si è alzata in piedi. Al suono dell’Inno, loro a mimare il testo e la gente a cantare, tra una commozione palpabile. Un momento davvero speciale.
Come lo è stato quello, nel pomeriggio, in cui un bambino emiliano, Francesco Messori, che ha una sola gamba, la sinistra e cammina reggendosi sulle stampelle, ha espresso tutta la sua passione per il calcio, e il suo rammarico per non poter giocare come gli altri bambini. Un sogno, un desiderio, che dalla prossima settimana potrà esaudire: glielo ha promesso personalmente il presidente Massimo Achini, che ha chiesto ai dirigenti del suo Comitato emiliano (e ovviamente ha ottenuto) una deroga perché Francesco, che tifa Messi ed è riuscito a farsi fotografare con il suo idolo, si senta un calciatore come tutti gli altri.
Un'oretta di intenso dibattito, con gli interventi dei dirigenti del territorio, ha così condotto il meeting alla pausa pranzo, per essere pronti nella ripartenza pomeridiana.
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